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martedì 14 febbraio 2012

Pecore nere - Capitolo 4



Capitolo 4
Uno dei motivi per cui si scrive, l'istinto primario che porta ad afferrare la penna e a buttare giù, nero su bianco, un pensiero è il desiderio di condividere quello stesso pensiero con qualcuno. Nessuno scrive sperando di non essere letto. Persino il diario segreto di un adolescente viene scritto per un ipotetico lettore, che spazia dallo stesso soggetto in età adulta (per non dimenticare) alla comunità, che sarà interessata a ogni aspetto della vita del soggetto, che nel frattempo sarà diventato, nella sua fantasia, una rock star o qualcosa di simile. 
Io iniziai a scrivere all'età di nove anni. Iniziai per diventare uno che sapeva creare emozioni come Edgar Allan Poe, anche se quello che scrissi poco aveva a che fare con il suo stile. Era una storia di fantapolitica sulla cessazione della guerra fredda. Nel lontano 1969. A ripensarci adesso, aveva un che di profetico. Peccato che sia andato perso, insieme ad altre brevi storie del mio infantile ingegno. 
Ma da dove nasce il desiderio di condividere pensieri ed emozioni con un pubblico sconosciuto, magari con generazioni lontane? Oltre a un desiderio di immortalità, si tratta della impossibilità di accettare di essere un puntino insignificante nella complessità della storia del mondo.
Gustav si alzò inquieto e andò in cucina. Era una sorta di rifugio, la sua cucina, perché non aveva finestre, ma solo un lucernario, da cui prendeva luce senza concedere alcuno scorcio di intimità a occhi indiscreti. Era un bozzolo luminoso. Un bozzolo dove poteva prepararsi un tè confortante e dove pensare sembrava più facile, più naturale. 
Versando l'acqua calda nella teiera, ripensò a quanto gli scottassero ancora nell'anima quelle lezioni in cui Barbato aveva preteso che gli studenti gli spiegassero, a voce o per iscritto, perché volessero scrivere. Lezioni di bollente umiliazione.
<<Io sto investendo il mio tempo su di voi. Voglio sapere perché volete scrivere. Non me ne faccio niente di quattro fighetti tanto innamorati del proprio ombelico da volerci scrivere intorno una storia. Se vi piace il vostro ombelico indossate una maglietta corta, mostratelo per strada, fotografatelo... ma non scrivetene. Oggi il mondo è pieno di gente che scrive intorno al proprio ombelico, non ce ne serve altra. Io voglio scrittori. Veri. Avanti, chi inizia? Sabrina, forza, che hai da dire?>>
<<Scrivo perché nel mondo ci sono un sacco di cose che non mi piacciono. La mia scrittura è una denuncia.>>
<<Bene. Però devi concretizzare questa idea. Nei tuoi scritti ancora non si vede la denuncia. Devi imparare a focalizzare l'obiettivo intorno a cui allestire la storia.>>
Sabrina annuì mentre prendeva fedelmente appunti. 
<<Gustav, illuminaci.>>
Gustav rimase pensieroso per qualche secondo. <<Mi piace notare analogie tra cose diverse e tra loro lontane. Scrivo per avvicinare cose lontane.>>
<<Sempre criptico. Queste sono parole vuote, come quelle che metti sulla carta.>> Barbato si avvicinò alla scrivania, sfogliò con mani furibonde il plico di elaborati e ne estrasse uno. <<Ecco, ora vi leggo - e lo leggo io, perché tu hai una voce bassa da far pietà - il racconto del nostro Nightingale, che dovrebbe spiegare perché scrive. Poi giudicate voi se vuol dire qualcosa.
<<GESTI. Angela posò il ricevitore sulla forcella con estrema calma. Prese un respiro profondo e senza scomporsi andò a infilarsi cappotto, sciarpa, guanti e un elegante cappello rosso.
Afferrò la borsetta e si lasciò l'appartamento alle spalle, con un clangore di chiavi che riecheggiava definitivo per le scale.
La strada era insolitamente affollata per le quattro del pomeriggio. Angela camminava a passo deciso, ma non affrettato, allontanandosi dal centro lungo il viale alberato che portava alla stazione.
Non doveva prendere un treno, ma voleva viaggiare in bilico su una circonferenza.
Il sole era appena tiepido e dalla bocca le usciva una densa nube bianca a ogni respiro.
L'aria profumava d'inverno. 
Angela adorava l'inverno, perché ciò che sembra una morte è solo attesa di rinascita. 
Passò davanti a un enorme cancello in ferro battuto. Nero. Lì abitava la famiglia Grossi, la famiglia più potente del paese. E come capita spesso alle grandi famiglie, si ritrovava oggi con discendenti capaci solo di sperperare il capitale e distruggere un piccolo impero. Tutti superficiali tranne Luigi. Ma forse le famiglie seguivano dei cicli, esattamente come la natura, solo più lunghi.
Angela, da parte sua, non aveva una famiglia. Non che fosse orfana o non avesse fratelli. Oh, ne aveva tre, tutti maschi. E tutti pensavano che lei fosse una stupida, solo perché da anni era innamorata di Luigi Grossi. Era l'unico che avesse un cuore, tra i fratelli e i cugini, diretti o acquisiti, del casato. Anche Luigi non era tenuto in alcuna considerazione dai suoi, perché anziché occuparsi degli affari di famiglia - produzione di lenti - preferiva andarsene in giro per il mondo a sperimentare il prodotto sul campo. Luigi era un fotografo.
Le ante della sua camera erano aperte, ciò significava che era tornato dall'ultimo viaggio. Non sarebbe passato molto tempo, prima che ripartisse. Questo potevano fare i soldi.
Anche Angela se ne sarebbe andata volentieri lontano per un po', a prendere appunti sul suo quaderno rosso. Mi manca l'aria, la vita non mi basta, era l'ultima annotazione sulle pagine a righe.
Angela era una scrittrice. O aspirante tale. 
Si arrestò al semaforo dell'incrocio. Rosso. Ogni volta che alzava la testa vedeva segnali che la ammonivano, intimandole di stare attenta.
Ma fare attenzione non significava correre sempre sui binari.
Il semaforo divenne verde e Angela attraversò la strada con passo lento, quasi a gustarsi la passeggiata sulle strisce pedonali, una sorta di oasi dove il ritmo della vita tornava a essere quello del corpo, non delle macchine. 
La ghiaia del viale scricchiolava sotto la gomma dei suoi stivali. 
Poi i suoi piedi lasciarono di nuovo il terriccio per l'asfalto, infine salirono dei gradini di cemento e Angela si ritrovò sul ponte sopra la ferrovia. Era un passaggio che da ragazzini si usava per andare al campo sportivo senza rischiare di essere investiti. Spesso ci si portava appresso le biciclette, con non poca fatica.
L'aria sembrava più fredda, lassù, ma forse era solo l'anticipazione che le scaldava le guance, producendo un netto contrasto con l'inverno.
Guardando di sotto si potevano vedere le linee dei binari. Non linee parallele, ma giochi di scambi che disegnavano intrecci interessanti.
Poi lo sentì arrivare. Era ancora lontano, si vedeva appena, ma l'aria intorno aveva iniziato a tremare. Il treno si avvicinava a velocità sostenuta. Era il diretto delle 16. 14, stranamente puntuale.
Angela si avvicinò al parapetto, che in realtà offriva ben poca protezione, e il suo sguardo sulla ferrovia si trasformò in lieve vertigine. Il convoglio ora era vicino. Lei inspirò profondamente, in attesa. Urla, Angela, urla! Il suo grido si perse nello sferragliare incessante delle ruote sulle rotaie, nell'esatto istante in cui il treno le passò sotto i piedi. Sotto il ponte.
Il suo urlo si spense nel frastuono, che ormai andava scemando. 
Angela si voltò verso la scalinata da cui era venuta e rimase immobile, nella sua calma serafica, a guardare Luigi che scostava la macchina fotografica dal suo occhio destro e le sorrideva.
Angela sorrise di rimando. E quell'attimo divenne eterno.
<<Vi sembra che contenga delle tematiche? Sabrina, tu che ne dici?>>
<<No. È solo descrittivo. Gli manca certamente una tematica, un conflitto.>>
Gli altri studenti nella sala annuirono, bisbigliando il loro assenso.
<<Dovete concentrarvi sulle tematiche. Ce ne sono tante. Sceglietene una e scrivetene. Questi sono racconti da ragazzina. Gustav, hai capito?>>
<<Questo racconto è una metafora del mio scrivere. Il tema è il mio scrivere.>>
<<Non è un tema interessante.>>
<<Ma ci hai chiesto di scrivere perché scriviamo. Questo ho fatto.>>
<<Be', non si capisce perché scrivi.>>
Scrivo solo delle storie, pensò Gustav, sorseggiando l'ultimo goccio di tè ormai tiepido.
Il cameriere gli servì il suo calice di Lugana con qualche tartina. Gustav annusò il vino e lo assaggiò. 
<<Questo vino non è male>> disse a Martina. <<Ma se fosse un libro e io fossi un editore non lo pubblicherei. Lo leggerei se lo trovassi in libreria. Ma non mi prenderei la briga di pubblicarlo, probabilmente. Ecco. Io sono come questo vino. Nessuno si prende la briga per me, per le cose che scrivo.>>
<<L'editoria è anche ricerca non è solo profitto>> gli fece notare Martina, spostando dietro l'orecchio destro una ciocca del suo corto caschetto viola.
<<È profitto e prestigio. Uno come me non porta né l'uno né l'altro.>>
Prese in mano una rivista, Fermento latino, una rivista letteraria che si occupava esclusivamente di letteratura italiana. 
<<C'è una recensione di Occhi di gatto>> disse, mentre scorreva velocemente l'articolo. <<Vedi? O porti profitto o porti prestigio. Questo Papi porta profitto, piace alle masse. Ma qui lo stronca alla grande.>>
<<Sentiamo un po'...>> lo incoraggiò Martina, rubando una patatina dalla ciotola sul tavolino.
<<Un inizio interessante si perde in descrizioni feline di una donna bellissima. Masturbazione mentale di un uomo che vorrebbe il mondo ordinato come la tavola degli elementi di Mendeleev. Da metà libro in poi il romanzo si spegne lentamente.>>
<<Sì, direi che il tipo lo descrive alla perfezione.>>
<<È una vita difficile quella dello scrittore>> scherzò Gustav. <<O piaci al pubblico o piaci ai critici.>>
<<Oh, Papi non piace solo al pubblico. È molto apprezzato nell'ambiente letterario della New Metropolitan Wave. I suoi colleghi lo esaltano. È un modo riflesso di esaltare se stessi. Un gioco furbo.>>
Gustav non aveva mai guardato la questione da quel punto di vista. <<In poche parole, sono un bluff.>>
<<Credo di sì.>>

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