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lunedì 16 maggio 2011

Vita in assolo



... ma io sono William Buelow Gould, non sono un uomo meschino o un uomo da poco. Non sono legato a nessuna idea di chi devo essere. Non sono contenuto tra i miei piedi & la terra ma sono infinito come la sabbia. (Richard Flanagan)


Il cerchio alla testa stringeva così forte le mie tempie da impedirmi di aprire gli occhi. La luce che filtrava dalla tapparella era un pugnale per le mie retine. Niente mi obbligava ad alzarmi dal letto, non avevo nessun impegno, nessun lavoro, nessun appuntamento. Niente mi obbligava ad aprire gli occhi, tranne l'orgoglio di voler dimostrare a me stesso di non essere il rifiuto che mi sentivo. 
Non era un delitto prendersi una sbronza. Non era illegale nemmeno se accadeva per tre sere di fila. E ciò non faceva di me un alcolizzato. Almeno, questo era quello che credevo alla terza mattina di postumi inenarrabili.
La doccia, prima fredda e poi bollente, mi aiutò a farmi sentire pulito, anche se non poté fare molto per allargare le fessure attraverso cui mi era consentita una vaga percezione del mondo. Vaga, ma dolorosa. Qualunque cosa guardassi o sentissi si trasformava istantaneamente in dolore.
Quando il telefono squillò, importuno e minaccioso, pensai che sarei morto. Senz'altro. 
<<... ronto?>>
<<William, pronto? Sei tu?>>
<<hhh>>
<<Ma cos'hai? Stai male? Oh, no! Non dirmi che hai bevuto di nuovo.>>
<<Ti dico tutto quello che vuoi se poi posso riattaccare.>>
<<Non fare lo stronzo. Ho un ingaggio per questa sera. Suoni al Blue Wing. Adesso vengo lì e ti rimetto in sesto. Non provarci neanche a rovinare tutto, questa volta.>>
Marco è il mio migliore amico, ma a volte è davvero insopportabilmente materno.
Dopo quattro tazze grandi di caffè concentrato iniziai a non trovare più insostenibile pensare, e anche la voce di Marco poteva essere tollerata in modo soddisfacente. 
<<Perché ti riduci sempre così? Cosa vuoi dimostrare?>>
<<Non ho intenzione di ridurmi, non lo faccio apposta. Io voglio espandermi. È solo che quando ti espandi troppo, capita di esplodere.>>

<<Adesso vai in bagno.>> Marco si avvicinò all'armadietto dei medicinali con aria stizzita. <<E gorgheggi con il collutorio finché non ti dirò di smettere. Intanto ti preparo del latte caldo e miele.>>
Sì, adesso più che mia madre Marco sembrava la zia Osvalda, di cui mio padre mi parlava sempre da piccolo. Era come dire Guarda che arriva l'uomo nero. Invece lui diceva Se non la smetti, chiamo la zia Osvalda. E io sarei stato disposto a tutto pur di non incontrare mai più in vita mia zia Osvalda. Prima ti stropicciava le guance con quelle sue mani alla candeggina, poi iniziava a straziarti i timpani per ore interminabili, proponendoti invariabilmente le sue ricette per una vita felice.
Anche Marco aveva milioni di ricette per salvare la mia anima e la mia immagine. Non necessariamente in quest'ordine.
Gli piaceva giocare a farmi da agente. Anche se si lamentava in continuazione del fatto che avessi bisogno di lui - o di uno come lui, che però avrebbe voluto essere pagato - per organizzare il mio lavoro e la mia vita. Perché ero un irresponsabile, un buono a niente. Un coglione, insomma.
Io non mi sono mai dato pena di contraddirlo, perché ho imparato che quando qualcuno ti fa una predica con tutta quella convinzione, quel pathos, qualunque cosa tu dica non avrà mai forza sufficiente da oltrepassare il suo padiglione auricolare.
Dopo mezz'ora di gargarismi, mi azzardai a fare capolino in cucina, limitandomi a guardare con aria interrogativa il mio agente. 
<<Altri dieci minuti, e passiamo al latte.>>
Trasformai l'aria interrogativa in minacciosa, senza che questo sortisse il minimo effetto, e tornai in bagno. Trovai, però, un modo divertente per continuare il supplizio. <<grrurido grihiio gri grugrrahaaa grehaa gri grahooo grashiaa gri greshdaa... (Lurido figlio di puttana testa di cazzo faccia di merda)>>
<<Okay, Wil, il lattino è pronto!>>
Sputai la schiumetta rosa nel lavandino e tornai in cucina sufficientemente innervosito. <<Da quando usi questo linguaggio da vecchia checca?>>
<<Smettila, stronzo, ti stavo solo prendendo per il culo. Mi sento un po' tua madre, a volte.>>
Sogghignai pensando a zia Osvalda.
Il pomeriggio non fu più piacevole della mattinata. Mentre la nebbia da post sbornia andava diradandosi nel mio cervello e lo stomaco iniziava a ricordarmi di essere vuoto, l'istinto primo della riconquistata lucidità fu sbranare Marco, per risolvere due problemi in una mossa: la fame e l'esasperazione.
Mi fece sedere al piano, per vedere se fossi in grado di ricordare le mie canzoni. Le mie canzoni. Capite? Non mi credeva quando gli assicuravo che era tutto okay. Non mi crede mai.
Ma se mi considera un tale mentecatto, perché continua a preoccuparsi per me?
<<Lo faccio perché sono tuo amico, Wil. Non mi piace vederti sprecare tutto quel talento. Hai una voce splendida, calda, sei un musicista intelligente e un poeta straordinario. Bene, ora che ti ho lavato bene il culo ti senti meglio? Possiamo tornare a concentrarci sul lavoro?>>
Il problema era che con lui a sorvegliarmi, concentrarsi diventava impossibile. Non sono mai stato bravo agli esami. 
Se devo suonare per farti divertire, okay; se devo dimostrarti che saprei fare divertire i tuoi clienti, okay; ma se devo sostenere un esame di integrità mando tutto a puttane.
Non ho mai sopportato di essere giudicato. 
A quindici anni lasciai il conservatorio perché non mi andava di essere considerato un incompetente, solo perché il mio walkman rilasciava le note dei Doors anziché quelle di Brahms. Ma già allora avevo questo pallino - Marco la chiama mania - di non voler essere dimenticato. Come diceva magistralmente un altro William: ... Sin che respireranno uomini, e occhi vedranno
Di altrettanto vivranno queste rime, se a te daranno vita. Ma nel mio caso non si trattava di rime
Il conservatorio sorgeva alla periferia della città, vicino a un maneggio, dove i ragazzini più abbienti potevano prendere lezioni di equitazione dopo quelle di musica.
Quel mio ultimo giorno, durante la lezione di pianoforte, che era il mio strumento, il maestro Sindori mi osservava con quel suo solito sguardo supponente. Sapeva che a casa non mi limitavo a suonare musica classica -  figurarsi, mio padre era un jazzista! - e per lui questo contaminava la purezza della mia esecuzione.
<<William, vuoi farci sentire il tuo Brahms? Sperando che non si discosti troppo da quello di tutti gli altri.>>
Questo bastò a farmi incazzare. E quando sono nero, io e il piano diventiamo la stessa cosa. Chiudo gli occhi e divento la tastiera. È come se mi bastasse immaginare la musica per produrla. Quindi non ho dubbi che la mia esecuzione, anche in quell'occasione, fosse almeno accettabile, degna di un Bravo, ma...
Invece Sindori, quando le ultime note si dispersero nell'aria lasciando spazio al silenzio, scoppiò in una risata affettata e denigratoria. <<Non ci siamo, William.>>
Scattai in piedi. La panchetta cadde all'indietro con un tonfo fragoroso. Mi guardai intorno veloce, scattai in una corsa per afferrare la sua ventiquattrore con tutti gli spartiti. <<Lei non è degno di questa musica.>>  Agitai in aria la borsa. <<Per quanto ne capisce lei, potrebbe benissimo essere merda.>> E colto da improvvisa illuminazione corsi verso la finestra del corridoio che dava sul recinto dei cavalli. La aprii lasciando entrare l'acre odore di sterco e lasciai precipitare il mio trofeo, che atterrò con un musicale clash
Sindori mi guardava a bocca aperta da metà corridoio, intuendo cosa avessi appena fatto.
Sì, d'accordo, tecnicamente fui cacciato dal conservatorio. Ma in ogni caso non avrei mai deciso di tornarci.
Avrei iniziato a suonare alle nove e mezzo. Così, dopo una cena leggera, cucinata da Marco-mani-di-fata, andai in camera per vestirmi.
I miei passi risuonavano strani nel breve corridoio. Doppi. 
Mi voltai di scatto, trovandomi così muso a muso con Marco. <<Ehi, ma che fai? Vuoi venire in stanza con me?>>
<<Voglio assicurarmi che indosserai degli abiti da persona civile, poi ti lascio spogliare da solo. Gli stronzi non sono il mio tipo.>>
No, questo non lo potevo sopportare. <<Io non sono una persona civile. Non possiedo abiti da persona civile. Suono. Punto. Questo vogliono da me, non una sfilata di moda.>>
<<Non parlo di moda, parlo di stile. So che non hai abiti da persona civile.>> Aprì un'anta del mio armadio. <<Ma Marco-gusto-impeccabile saprà combinarti in modo da sembrare un vero figo.>>
<<Basta che poi tieni le mani a posto.>>
<<Stronzo.>>
<<Checca.>>
Mi sono sempre divertito a prendere in giro Marco per la sua bisessualità. Quando lo scoprii rimasi stordito per qualche secondo di troppo, per fingere poi che per la nostra amicizia non avrebbe fatto alcuna differenza. Marco si era da poco lasciato con Susanna. Aveva sofferto parecchio, ma ultimamente aveva ripreso a essere pieno di vita come un tempo. 
Quella sera entrai nel locale che eravamo soliti frequentare, il Red Eagle, per vedere se qualcuno della banda era fuori. Era lunedì, quindi non confidavo di trovare nessuno, in realtà. Ma la cameriera aveva un seno bellissimo, e io preferivo di gran lunga lo spettacolo del suo ondeggiare dolce al di sopra del vassoio a qualunque trasmissione televisiva. Certo, avrei potuto starmene a casa a leggere un libro, ma evidentemente avevo bisogno di stimolare passivamente la vista.
Be', lo spettacolo che mi aspettava non era esattamente quello che mi ero immaginato. 
Al tavolino proprio di fronte all'ingresso, Marco e un energumeno palestrato si stavano guardando negli occhi, sussurrandosi non so e non voglio sapere cosa, tra un sorso e l'altro dei loro cocktail.
Rimasi a guardarli, pietrificato. Marco si accorse di me, e si alzò venendomi immediatamente incontro. Quando tentò di appoggiarmi una mano sulla spalla, mi ritrassi come uno stupido. <<D'accordo, come vuoi. Non ti tocco, e non ti parlerò nemmeno. Facciamo domani a colazione? Ti spiegherò tutto.  Per ora puoi essere incazzato con me perché non te ne ho mai parlato, ma non è esattamente come sembra.>>
<<Oh, e com'è? Stavate facendo a braccio di ferro?>>
<<Ci stavamo semplicemente conoscendo. Sono bisessuale, okay? Non ho spesso relazioni con uomini, ma mi capita.>>
<<Ti capita?>>
<<Faccio sesso con chi trovo intellettualmente stimolante.>>
<<Oh, Mr. Hulk lì al tavolo è intellettualmente stimolante?>>
<<Non ti facevo uno che giudica dalle apparenze.>> 
Tornò dal suo amico piantandomi in mezzo al locale.
Mi avvicinai al bancone e quella sera, dopo aver affogato il mio senso di colpa nell'alcol, affondai tutto me stesso nel dirompente, meraviglioso, morbido seno di Simona-la- cameriera.
Quando arrivammo al Blue Wing erano le nove meno un quarto. Il proprietario mi fece accomodare al piano, perché a me piace fare conoscenza con lo strumento prima di esibirci in pubblico.
Marco mi guardò con gli occhi di un inquisitore quando accettai il whisky scozzese che mi venne gentilmente offerto dalla direzione.
Quel bruciore tipico è un vero toccasana. Ti dà l'impressione netta di riempire tutti quei vuoti insignificanti che ti si aprono qua e là nello spirito, senza che nemmeno tu te ne accorga o riesca a individuarli. Per qualche minuto non esistono più. 
Whisky, musica soffusa, un mezza coda sotto le dita. Proprio come quella volta che dovetti pagare i danni. 
Era una delle mie prime esibizioni notturne. Ero agitato e avevo usato il whisky come ansiolitico. Errore numero uno: se proprio hai deciso di bere prima dello spettacolo, fai almeno qualcosa per quell'alito!
Errore numero due: se, avendo deciso di bere, non sei più lucido come lo smalto nero del pianoforte, evita di portare il bicchiere in scena. Se lo fai, nessuno mai penserà che strascichi la voce perché vuoi imitare Billy Holiday.
Errore numero tre: se, avendo portato il bicchiere pieno in scena, lo rovesci sulla tastiera, non tentare di asciugarla passandoci sopra la mano come fosse una pala. In questo modo produci solo suoni sgradevoli per chi era invece venuto a sentire musica.
Errore numero quattro: quali che siano le tue condizioni, evita di salire sul pianoforte per scappare dal gestore inferocito. Potresti rischiare di sfondare il coperchio.
Ora lo so. Imparo anch'io dall'esperienza. Quindi il whisky prima dell'esibizione rimase uno.
Già, ma dopo la performance mi dovetti premiare in qualche modo. Dovevo movimentare la serata. Cuba. Sì, sentivo odore di Cuba. Un sigaro, un rum... mancava solo una bella donna.
Marco si avvicinò al mio tavolino tenendo nella mano destra il mio bell'assegno e nella sinistra la sua splendida e nuova fidanzata. Ma perché le bellissime scelgono sempre lui, tra i due?
<<Vedi di non sputtanarli in alcol. Veronica e io dobbiamo andare, adesso. Sicuro di non voler venire via con noi?>>
<<La serata è appena iniziata, non vorrete mettermi a letto prima di uscire a divertirvi!>>
<<OK. Non bere altro, però. Intesi?>>
<<Sì, mamma.>>
Non ho mai ubbidito a mia mamma. 
È per questo che mi sono appassionato di musica fin da piccolo. Mia madre temeva che diventassi come papà, cioè un irresponsabile buono a nulla. 
Dio come aveva ragione!
Sono un musicista e vivo come voglio vivere. Tutti quelli che credono di conoscermi pensano invece che sono diventato un musicista perché non so fare altro.
Il problema è che per me non esiste altro. 
Sembra che non sappia cosa voglio, solo perché non mi importa cosa ottengo, ma cosa faccio per arrivare a ottenerlo. 
E per ottenere qualsiasi cosa, io suono.
Oddio, oddio. Perché pensare a quest'ora della mattina mi fa sempre così male al cervello?
Il sole sembra un faro da stadio, oggi. Mi sa che ho aggiunto qualche mattina alle tre precedenti di postumi inenarrabili. D'accordo, forse ho un problema, ma è difficilmente risolvibile. Non posso svegliarmi un giorno e spazzare via tutto quello che non mi va di questo mondo di merda, no? Nel frattempo, tra un drink e l'altro, suono.
I'm singing my song... 

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